La maggior parte dei medici gastroenterologi ritiene che i probiotici siano teoricamente efficaci ma praticamente non efficienti. Sebbene siamo tutti d’accordo sul fatto che molti disturbi gastrointestinali (e qui ci limitiamo esclusivamente alle patologie intestinali) riconoscano come concause degli squilibri tra le popolazioni micorbiche, è di tutta evidenza il fatto che gli strumenti terapeutici a disposizione dei medici siano attualmente scarsamente efficienti.

Le cause di qusta scarsa efficienza dei probiotici sono da imputarsi innanzitutto allo scarso controllo che esiste sulla commercializzazione dei prodotti che, a tutt’oggi, risultano per la legge italiana dei semplici integratori. Molti di questi sono formulati con un mix di ceppi in dosaggi inferiori al miliardo di individui (UFC) per singolo ceppo. Un escamotage usato da molti produttori per risparmiare sui costi di produzione.

Non dobbiamo dimenticare che maggiore è il dosaggio somministrato e più elevata è la possibilità che il ceppo produca una colonizzazione efficace. E questo spiega perché, se è il dosaggio a fare la differenza sulla colonizzazione, sarebbe meglio puntare sulla somministrazione di un solo ceppo al doppio o al triplo del dosaggio che non su due o tre ceppi alla metà, o ad un terzo, del dosaggio.

Ciò nonostante sul mercato abbondano formulazioni contenenti una decina di ceppi probiotici dosati ciascuno a un miliardo di UFC piuttosto che formulazioni contenenti un unico ceppo dosato a dieci miliardi di UFC. Va da sè che nonostante l’apparente maggiore biodiversità, la seconda formulazione ha dieci volte più probabilità di indurre colonizzazione rispetto alla prima e pertanto maggiori probabilità di ottenere risultati clinicamente evidenti.

Un altro elemento che a mio parere va a scapito dell’efficacia è il fatto che la maggiore parte delle formulazioni in commercio contiene una miscela di lactobacilli e bifidobacteri dosata con molti più lactobacilli che bifidobacteri in un rapporto che è esattamente inverso a quello di un intestino eubiotico nel quale i bifidobacteri sono presenti in misura dieci volte maggiore dei lactobacilli.

Mescolare queste due specie può dare ai prescrittori l’idea di somministrare un prodotto più “completo”, quando in realtà sarebbe molto più sensato tenerle separate, somministrandole sequenzialmente. In questo modo si proteggerebbe l’integrità dei bifidobacteri (notoriamente più fragili) ottenendo formulazioni maggiormente stabili ed efficaci.

In somma, diversi sono i motivi che possono spiegare gli insuccessi della terapia probiotica e molti di questi sarebbero evitabili grazie a prescrizioni maggiormente mirate e personalizzate sulle problematiche dello specifico paziente e con un occhio alle problematiche inerenti il dosaggio delle UFC.

Torneremo ancora su questo argomento perchè la nostra personale convinzione è che i probiotici, quando prescritti con “common sense” e acume clinico, hanno solitamente un impatto positivo sul disturbo lamentato dal paziente.