IBS è un acronimo che significa sindrome dell’intestino irritabile. Vi sono diverse teorie sulla genesi di tale patologia. La più accreditata è quella che ne attribuisce le cause ad un mix di disbiosi di base, eccessiva presenza di carboidrati fermentabili nella dieta ed eccessivo carico osmotico nel grosso intestino.
In alcuni casi si è visto che sono presenti anomalie nelle reazioni immunitarie della mucosa e – sicuramente – qualsiasi quadro di IBS è aggravato dallo stress psicologico.
Quindi, facendo due più due, la prima cosa da fare, in quanto la più logica, dovrebbe essere quella di modificare la dieta del paziente diminuendo drasticamente la presenza di oligosaccaridi, disaccaridi, monosaccaridi e polioli, adottando cioè un protocollo Low-FODMAP sotto supervisione medica.
Si è visto infatti che questo tipo di dieta a esclusione, oltre a migliorare sensibilmente i sintomi dell’IBS induce una serie di modifiche nel microbioma intestinale che permettono di mantenere nel tempo i risultati raggiunti dopo la sospensione della dieta (che viene solitamente utilizzata per un massimo di tre mesi).
Ciò nonostante negli ultimi anni, complice una certa quota di ignoranza e una pubblicità molto aggressiva dei venditori di probiotici, questa finisce per essere la prescrizione che viene data più raramente ai pazienti che soffrono di intestino irritabile. Spesso e volentieri il trattamento viene invece iniziato con un mix di antibiotici e pre/probiotici che raramente danno luogo a sostanziali benefici.
Il motivo? La speranza (errata) che una pillola possa agire meglio di una modifica dietetica, dimenticando che la dieta è la chiave che decide le sorti delle popolazioni microbiche intestinali.